Nulla, ma proprio nulla, da salvare. La Nazionale italiana esce con le ossa rotte dall’ottavo di Berlino contro la Svizzera. Spedizione tedesca dunque fallita. Sono tanti i capi d’accusa, a cominciare dal CT Luciano Spalletti, passando per i giocatori, per arrivare ai vertici della federazione. Il primo ha già confessato di essere l’unico colpevole ma, si sa, si fa così più o meno per convenzione.
I calciatori, almeno quelli intervistati, si sono detti “affranti” per quanto successo, alcuni hanno chiesto scusa ai tifosi. Rimane il Presidente Gravina, ma c’è da scommettere che nell’incontro con la stampa previsto per domani a Casa azzurri prevarrà un linguaggio politichese. Fumo, purtroppo, come vuole la prassi. E invece la disfatta azzurra di questa sera obbliga a riflettere, quantomeno. In maniera seria. Perché hai voglia a parlare dell’allenatore, dei ragazzi, della tattica o della condizione fisica.
Qui c’è un problema che il calcio italiano vive ormai da decenni. Una assenza pressoché totale di progetti sulle giovani promesse. Pochi, pochissimi i vivai che possono definirsi tali. E seppure dovessero emergere elementi promettenti spesso si pecca di pressapochismo sguazzando in interessi e obiettivi effimeri, che quasi mai vanno sul lungo termine. Se si aggiunge poi il fenomeno inarrestabile dell’eccessiva presenza di stranieri nei club italiani, il cerchio si chiude in maniera perfetta. Il calcio italiano non può continuare ad essere industria a tutto tondo, ma esige in maniera urgente ed improcrastinabile una inversione di rotta che porti maggiore professionalità e dedizione per arrivare a trionfi ed affermazioni internazionali.
Né più, né meno di come fanno gli altri. Meno politica, regole nuove sui procuratori e tanta, tanta competenza e passione in più. Una ricetta che può apparire difficile ma che non è impossibile. Basta utilizzare gli ingredienti giusti.
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