Prima di capire gli sviluppi e le cause della contesa relativa alla produzione del gianduiotto, arrivata da qualche giorno perfino al Commissario europeo per l’agricoltura a Bruxelles, diamo qualche cenno circa le origini di questo prelibato cioccolatino, apprezzato dai palati di tutto il mondo.
Il Giandojòt, come lo chiamano i torinesi, nasce ufficialmente nel 1865 in occasione del Carnevale. Si racconta che Gianduia, la maschera rappresentativa del Piemonte, ai partecipanti alla festa, distribuisse un po’ di quelle golosità. Fu così che da allora, dal nome del personaggio, si coniò il termine gianduiotto. Ma il suo antenato, il “givu” (bocconcino), esisteva già dal 1832, quando a Torino arrivò Pierre Paul Caffarel che, insieme col maestro cioccolatiere Michele Prochet, fondò la Caffarel-Prochet & C.
Nella storia dell’illustre prodotto risulta determinante Napoleone Bonaparte. Nel 1806 il generale francese impose in Europa il Blocco continentale determinando dunque una difficile reperibilità del cacao che, già di suo, costava davvero tanto. Il piano B di Prochet e degli altri maitre chocolatier fu quello di sostituire buona parte dell’impasto di cacao con le nocciole, peraltro diffusissime nelle langhe piemontesi.
La questione che ora è sul tavolo da qualche settimana riguarda il marchio IGP (Indicazione Geografica Protetta) e il conseguente parere in merito, da parte dell’Europa. Parte attiva per l’ambìto riconoscimento sono la Regione Piemonte e il Comitato (prossimo Consorzio) per la tutela del gianduiotto. Chi si oppone invece è la Lindt (Gruppo Lindt & Sprüngli) che, ricordiamo, a fine 2021 ha integrato Caffarel con un’operazione di fusione. Non piacciono, al Colosso del cioccolato, una serie di elementi che vanno dal nome del prodotto fino agli ingredienti che lo compongono.
Gli svizzeri si oppongono al nome “Giandujotto di Torino IGP” e propongono più semplicemente “Giandujotto del Piemonte”. Userebbero, inoltre, il latte in polvere con l’obiettivo di abbassare la quantità di nocciole. Una totale eresia per i “sabaudi”. I quali dettano una serie di fattori e caratteristiche imprescindibili per la conservazione della ricetta originaria. Le nocciole (attenzione, anch’esse rigorosamente del Piemonte IGP!) devono rappresentare dal 30 al 45 per cento dell’impasto; per gli svizzeri può bastare anche il 28. Tranne pochissimi altri ingredienti, in percentuali peraltro sotto l’un per cento, sono da aggiungere alle nocciole solo zucchero e cacao.
Per quest’ultimo non c’è preferenza sulle caratteristiche, ma quello venezuelano si ritiene sia tra i migliori. Lo zucchero va bene sia quello di canna che quello di barbabietola, l’importante è che sia bianco. Il più attenzionato risulta essere il latte (quello in polvere). Quelli che difendono la ricetta originale ne escludono categoricamente l’uso. Lindt che già lo usa, lo ritiene essenziale. E riduce, di fatto, l’impiego della nocciola. Per i “puristi” pasticcieri e cioccolatieri valgono, e tanto, anche il peso e la forma. Quest’ultima rappresentante, ancora e sempre, una barca rovesciata, deve sviluppare un peso che va dai 4 ai 16 grammi per pezzo. “Se pesasse di più – dicono – non sarebbe IGP”.
Il tema, come spesso avviene, è rappresentato dalla differenza tra una produzione essenzialmente industriale ed una di tipo artigianale, di certo più sana e genuina. Ma qui la vicenda diventa inevitabilmente anche politica. D’altronde, non potrebbe essere diversamente, visto che quando si parla dei marchi IGP, DOP, DOC e anche delle denominazioni IGT e STG si vanno a difendere le diverse territorialità da intrusioni che possono riguardare e/o danneggiare il mondo artigianale, e con esso le micro realtà del posto.
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