Palazzina LAF segna l’esordio alla regia di Michele Riondino. Il film racconta una storia vera, quella vissuta per anni da una settantina di dipendenti dell’ex Ilva di Taranto relegati presso un vero e proprio lager. Quei “poveri cristi” avevano il grande torto di essere lavoratori specializzati. Un capitale umano che era l’esatto contrario di quello necessario ai proprietari dell’epoca. La famiglia Riva, che nel ’94 subentrava, nella proprietà, all’IRI di Romano Prodi, pretendeva lavorassero solo gli operai, quelli classici, quelli veri. Delle altre figure professionali, peraltro già nei quadri aziendali, proprio non sapeva che farsene. E poiché all’epoca ancora esisteva l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, era in pratica impossibile, se non per giusta causa, disfarsi di coloro i quali parevano addirittura intromettersi nella vita aziendale. Solo un eventuale accordo di demansionamento sarebbe stato alternativo all’isolamento in quella palazzina tanto simile a un Overlook Hotel degradato e fatiscente. La vicenda, finita in tribunale, rappresentò il primo caso di mobbing in Italia. Ne uscirono condannati i fratelli Riva e alcuni dirigenti aziendali.
Riondino, tarantino doc, da anni impegnato a difendere l’ambiente e la popolazione del quartiere Tamburi di Taranto, non rinuncia a recitare, nel film. Anzi si cuce addosso la parte del protagonista, Caterino La Manna. Un operaio che, piuttosto ingenuamente, cade nelle grinfie di Giancarlo Basile, interpretato da un ottimo Elio Germano, che dell’azienda è il perfido capo del personale. E che offre a La Manna le mansioni di capo-squadra e finanche un’auto aziendale in cambio di un marcamento stretto nei confronti di Renato Morra, un sindacalista che sobilla le maestranze del polo siderurgico. Invita, per questo, lo sprovveduto Caterino a “essere uno di loro” nelle manifestazioni di sciopero, lo spinge a infiltrarsi tra i colleghi. Ma la collaborazione non dura molto. Ben presto Caterino La Manna quasi “sceglie” l’esilio alla Palazzina LAF. Convinto di potervi trovare una autentica pacchia. Invece si imbatte in una strada senza uscita. Un manicomio, a ben vedere.
I giudici, nella sentenza, diranno che “tra i malcapitati, c’era chi prendeva a calci i muri, chi lanciava suppellettili, chi fingeva di parlare al telefono col superiore, chi faceva ginnastica o giocava a carte, chi a un certo punto della giornata lanciava urla disperate e chi, peggio dei cretini, riempiva il suo tempo contando le piastrelle o i mattoni”. Un disagio allucinante. Di fronte al quale vanno a farsi benedire le regole elementari di un vivere civile. Prima ancora che si arrivi a calpestare il diritto di ogni lavoratore. Insomma, una pagina buia nel mondo del lavoro.
Tornando al film, ci piace sottolineare la conferma di Vanessa Scalera (la Imma Tataranni della TV, per intenderci) ancora una volta bravissima, proprio nel ruolo di una tra gli inebetiti dipendenti, isolati alla Palazzina LAF.
Superlativo anche Diodato, autore e interprete del brano “La mia terra”, confezionato e cantato magnificamente per l’occasione. Un pezzo che mette i brividi. Anch’egli originario di Taranto, attivista come l’amico Michele Riondino, il vincitore di Sanremo 2020 si dice onorato di questa sua partecipazione. “Saputo del progetto di Michele, mi sono proposto da subito a collaborare. Il minimo che potessi fare per una terra che amo e sento mia”.
“LAF” è l’acronimo di laminati a freddo, dice Riondino che aggiunge “non lo ritengo un film contro la fabbrica o contro il sindacato; è semmai un film che vuole difendere l’idea di quel mondo lavorativo che, ahimè, non c’è più”. Noi, in chiusura, non esitiamo più di tanto a definirlo un film di denuncia che ci rivela una storia semplicemente assurda, per anni sconosciuta a tutti.
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