Il 10 dicembre 1994, nel Municipio di Oslo, furono eccezionalmente tre gli assegnatari del Premio Nobel per la Pace. Shimon Peres (Ministro degli Esteri israeliano), Yasser Arafat (leader dell’OLP) e Yitzhak Rabin (Primo Ministro d’Israele) condivisero il riconoscimento del Comitato norvegese per il Nobel per aver raggiunto il 20 agosto dell’anno prima gli Accordi di Oslo, ratificati poi il 13 settembre alla Casa Bianca quando il presidente USA Bill Clinton, e il mondo intero, assistettero alla storica stretta di mano tra Rabin e Arafat. Motivazione: “Per i loro sforzi per creare la pace in Medio-Oriente”.
Nel ricordo sbiadito di quello storico evento, dopo il quale, invero, nulla o quasi si è registrato, si fatica non poco a realizzare ciò che è successo, ormai una settimana fa, nella martoriata regione mediorientale. I miliziani di Hamas, bucando incredibilmente il sofisticato sistema con cui da sempre operano i Servizi segreti israeliani hanno “scritto” e insanguinato una pagina di storia di terrore assoluto e inaudito orrore. Non si è fatta attendere la rappresaglia del nemico di sempre. Benjamin Netanyahu, premier dello stato ebraico, ha ordinato da subito al proprio esercito di eliminare fino alla radice quelle forze estremiste che, a detta di tutti, poco o nulla hanno a che vedere col popolo palestinese. Ma che intanto ne rappresentano, sono già sedici anni, i governanti. O, forse meglio, i carcerieri.
E proprio a Gaza, che una galera lo è per davvero, l’esercito israeliano è pronto ormai da giorni a entrare. Un’incursione terrestre, in pratica già decisa, che sta facendo tremare mezzo mondo. Si aspetta che oltre un milione di persone si spostino nel sud della “Striscia” per spianare la strada ai caroselli distruttivi dei tank, schierati numerosi da giorni. I raid dell’aviazione sono quotidiani, molti obiettivi nemici risultano colpiti, ma con essi anche tante abitazioni civili. Gli ospedali sono al collasso, il personale allo stremo. Scarseggiano viveri e medicinali. E alla popolazione sono state tolte luce ed acqua. Vietato l’accesso, ma soprattutto è proibita l’uscita dall’angusto territorio di Gaza. Ai varchi, pressoché inesistenti, potrebbero abbinarsi i corridoi umanitari. Anche qui il nulla assoluto. O quasi.
Una situazione disastrosa che potrebbe peggiorare da un momento all’altro. Di fronte alla quale la diplomazia e la Comunità Internazionale appaiono latitanti. Pressoché assente l’Europa, gli Stati Uniti sembrano quelli di sempre. E dunque la palla passerebbe a nuovi attori. Che in uno scacchiere delicato e complesso, al tempo stesso, ci auguriamo possano offrire un minimo di mediazione. Missione difficile ma, si spera, non impossibile. Ci piace chiudere con un minimo di riflessione su quanto a suo tempo sosteneva Shimon Peres. I palestinesi, diceva il Nobel, sono il nostro peccato originale. Dubitando, dunque, di quanto espresso da Theodore Herzl, padre del sionismo, nello slogan “Un popolo senza terra va a una terra senza popolo”. Per Peres, su quella terra, un popolo c’era già: quello arabo. Come dire, una chiave di lettura che dipani la matassa. Potenzialmente. O che almeno orienti le coscienze di quelli che contano.
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