La Turchia non è un Paese per giornalisti. La nazione a cavallo tra Europa e Asia, infatti, detiene il record mondiale di cronisti in galera: sono ben 76 quelli dietro le sbarre. Più che in Cina, Iran ed Eritrea, da sempre considerati stati molto repressivi verso la libertà di stampa. A lanciare l’allarme è Federazione europea dei giornalisti (Fej), che dedica la Giornata europea per la difesa del giornalismo, in programma il 5 novembre e dal titolo “In piedi con il giornalismo”, proprio alla solidarietà verso i cronisti turchi detenuti in virtù di una legge anti terrorismo. Proprio in questi giorni il premier Recep Tayyip Erdogan ha celebrato trionfalmente ad Ankara i primi dieci anni di governo del suo partito, l’Akp, con l’intenzione di restare ai vertici del Paese per altri dieci anni, fino al centenario della Repubblica nel 2023. Ma è chiaro che questioni come quella dei diritti umani pesano sul bilancio del suo mandato. La Fej, che rappresenta oltre 310mila giornalisti di 30 paesi, ha inviato una lettera all’ambasciatore turco presso l’Unione europea Mehmet Hakan Olkay per “sollecitare il governo a rilasciare tutti i cronisti incarcerati che sono trattenuti sulla base delle loro attività giornalistica e a mettere fine all’uso delle leggi anti terrorismo contro i giornalisti, in violazione dell’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo”. Autrice del rapporto sullo stato della libertà di stampa in Turchia è il Comitato per la protezione dei giornalisti (Cpj), secondo cui nel paese della mezzaluna è in atto “una delle più vaste operazioni di repressione della libertà di stampa della storia recente”. Dei 76 giornalisti in carcere, almeno 61 “sono detenuti in diretto rapporto con i lavori pubblicati o con la loro attività di ricerca di informazioni”. La condizione di altri 15 cronisti risulta meno chiara. La ong non denuncia solo le pene inflitte ai giornalisti con il pretesto della lotta al terrorismo, ma anche “tattiche di pressione per convincerli all’autocensura”. Il rapporto del Cpj rileva inoltre che il 70 per cento dei cronisti in prigione sono sospettati di legami con il Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan che pratica la lotta armata per l’indipendenza curda. I rimanenti sono indagati per la presunta appartenenza a organizzazioni clandestine o per la presunta partecipazione a progetti di colpo di Stato. Più di tre quarti dei cronisti dietro le sbarre infine sono in attesa di giudizio, anche da diversi anni.
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